Discorso di Trani, De Sanctis

DISCORSO DI TRANI
(29 gennaio 1883)

Signori,

questa è la prima volta nella mia vita che mi tro­vo a fare un discorso in teatro. Su di un palco­scenico mi sento come separato da voi, e la vita mi pare non più una missione, ma una scena, e l’oratore mi si trasforma in attore, che gonfia le gote è simula passioni e caratteri. Questo non mi va; e proprio ciò che ci è di più contrario alla mia natura modesta e semplice. Io sono un uo­mo fatto così alla buona, e mi piace di stare in mezzo a voi e trasfondere in voi la mia anima e ricevere da voi le mie inspirazioni. E poiché di­cono che io sono un uomo distratto, voglio que­sta volta fare un grande sforzo di distrazione, e oblio il palcoscenico e mi figuro che io mi trovi a un convegno desiderato, con vecchi amici. Signori, io sono ancora sotto l’impressione del­l’accoglienza che mi avete fatto, un’accoglienza magnifica per cordialità di espansione, per quel­la pulitezza di costume e ordine nel brio, per quel fare di grande città, che mi faceva leggere sulle vostre fronti: – Noi non siamo secondi a nessuno -. La vostra accoglienza era degna del­la vostra votazione: splendida espressione l’una e l’altra della vostra benevolenza verso l’esule, al quale avete restituita la patria, onorando voi stessi e mostrandovi capaci di quella riverenza alla vecchiezza, di quell’ossequio a’ benemeriti, che sono i sentimenti ed i doveri elementari, e quasi l’alfabeto di un paese che vuoi dirsi civile. (Vivi applausi)

E questi sentimenti furono in voi cosi gagliardi, che non solo i partiti locali, che vogliono pur far sentire la loro voce nelle elezioni, ma i partiti po­litici e le diverse classi sociali si trovarono con­cordi in una sola votazione. E così indovinava­no il mio desiderio, e forse anche un po’ la mia natura. Io non sono propriamente un uomo di partito, non ho animo partigiano. La mia incli­nazione è non di guardare dentro nel partito, ma di guardare al disopra, là nel paese, del qua­le i partiti sono istrumento. (Applausi) Quando io vedo uomini, che non escono da quella cer­chia stretta, che si chiama un partito, e inventa­no una giustizia, una verità, una libertà a uso del partito (Applausi), e vogliono il bene per sé e non per tutti, io mi ribello e dico: – No; la giusti­zia è una, la verità è una -. I partiti sono tanto più forti, quanto meno pensano a sé e più pensa­no al paese; ed hanno in questo il loro premio, che diventano così centro di attrazione e di sim­patia, e ingrossano, e sono incoraggiati e soste­nuti.

Questo è quello che io chiamo il patriottismo di un partito, quel sentire viva e presente la patria in mezzo al partito, quel tenersi in continua co­municazione con tutto il paese. Voglio darvi un esempio, ed esco per poco dalla mia distrazione e ritorno al teatro. Stiamo sul palcoscenico, voi siete la platea. Se lo scrittore o l’attore s’infoca nell’azione, e non tien conto del pubblico, e non infoca anche quello, nasce una diversa tempera­tura; e più s’infoca l’attore e più la platea si raf­fredda, e non lo sente, e si mette a chiacchierare e prende l’occhialino e guarda le belle signorine ne’ palchi (Ilarità). La platea è il paese, che assi­ste all’opera de’ partiti; e quando questi s’info­cano, il paese innanzi a certe collere a freddo ri­mane indifferente, e volge le spalle, e nasce quel terribile fenomeno, che si chiama l’apatia; il pae­se che abbandona i partiti, e talora, talora deser­ta persino le urne. Bisogna pensare al paese, se volete che il paese si occupi di voi. E, perché tut­ti sanno che io, pur rimanendo fedele al mio par­tito, mi ci sto volentieri al di sopra, tutt’i partiti politici mi stimano e mi vogliono bene, e voi lo avete maravigliosamente compreso, unendovi tutti intorno al mio nome, e guardando in me più il patriotta che l’uomo di partito. Lasciamo dunque i partiti e parliamo del paese. Voi non vi attenderete da me un programma politico. Già io ho avuto sempre poco gusto per si chiamano gli elettori (Ilarità ed applausi). Vede­te, per esempio, quel così detto programma di Stradella, intorno al quale si assidono uomini di tutti i colori e di tutti i sapori, e mi viene in men­te quel detto di Talleyrand, e dico che, come la parola, così il programma politico, pare talora messo lì per covrir meglio il nostro pensiero. Del resto, per gli elettori di spirito il vero pro­gramma è tutta la vita di un uomo, e questo è il programma che io presento a voi (Lunghi e frago­rosi applausi). Più che fare un programma, io vo­glio dirvi quali sono le mie aspirazioni per il be­ne del mio paese (Movimenti di attenzione). Noi abbiamo oramai 1′«unità» nazionale; ma a que­sta unità manca ancora la base, manca 1′«uni­ficazione». E l’unificazione è quel lento lavorio di assimilazione, che dee scemare possibilmen­te le distanze, che separano ancora regione da re­gione e classe da classe. E a ciò non conduce que­sto aguzzare di continuo le passioni e le diffe­renze di classi e di regioni, e seminare odio, invi­dia, uno stato di guerra negli animi, perché l’odio non crea niente, ma distrugge tutto (Applausi), e perché questo non è unificare, ma se­gregare l’Italia, è un delitto contro l’unità nazio­nale. (Nuovi applausi) Io vi dirò qual è il mezzo per giungere a questa unificazione. L’organi­smo sociale è simile all’organismo umano, nel quale la malattia di un membro, se tu la trascuri, diviene malattia e morte di tutto l’organismo. Se una regione langue, quel languore si ripercuote questa spe­cie di programmi, che sono, in certe occasioni, come una rete per pescare que’ buoni pesci, che in tutte le regioni d’Italia; e una classe che soffre, diviene una piaga infissa nel corpo sociale, che si fa cancrena e lo uccide. Il male di uno diviene il male di tutti; e nasce quel sentimento di soli­darietà, che ci fa sentire come nostra sventura, sventura di tutta Italia, la sventura che colpisce una regione, o una classe. E noi dobbiamo esser pronti all’aiuto non solo in nome di questa o quella regione, di questa o quella classe, ma in nome di tutta Italia, per il bene d’Italia. (Applau­si) Noi dobbiamo creare negli animi questo sen­timento di solidarietà, amore, carità, fratellan­za; e avremo allora l’unificazione, avremo data alla nostra unità quella base di granito, che la renda indistruttibile non solo nella nostra co­scienza, ma nella coscienza de’ nostri avversari. (Lunghi e fragorosi applausi)

E, per formare questo sentimento di solidarietà, dobbiamo creare un ambiente, nel quale possa svilupparsi e vivere. E quando io fui nella vita politica, e vidi formarsi un ambiente, nel quale talora i bassi fondi sociali osavano di alzare la te­sta e cercavano d’imporsi (Impressioni); quando vidi in quell’ambiente svilupparsi e vivere e pro­sperare la corruttela politica, ch’è il tarlo de’ Go­verni parlamentari, e trionfare l’io politico, che è la politica usata a vantaggio dell’io (Applausi), io mi sentii correre la penna tra le dita e scrissi cer­te pagine nel “Diritto”, la cui conclusione è que­sta frase: – Bisogna purificare l’ambiente (Applau­si). E poiché mi sento già in familiarità con voi voglio spiegarvi come in me sono nate queste impressioni nella mia vita politica. La politica non è stata mai per me una vocazio­ne; io ero nato per vivere in mezzo a’ miei giova­ni, e predicare a loro ciò che mi pareva il bello ed il buono; e mi sentivo tanto felice in mezzo a lo­ro. Io ad essi non parlai mai di libertà, non parlai mai d’Italia; parlavo della dignità personale, e dicevo: — Guardate in tutto la dignità della vo­stra persona: quello che voi dite è parte di voi, è la vostra personalità, e mentire alla vostra paro­la è un mutilare la vostra persona, è fare una cat­tiva azione, è uno sporcare la vostra persona! (Vi­va impressione e applausi)

- Mantenete intatta e degna la vostra persona -. E in questa parola c’era tutto: c’era la patria, c’era la libertà, c’era l’Italia, c’era la virtù. (Applausi).

 Allora durava ancora, e continua anche oggi, quel vizio ereditario della nostra decadenza, che divenne il tarlo dell’intelligenza italiana, e si chiama la rettorica, quella frase luccicante, che contenta e interessa per sé, e nasconde la vacui­tà del pensiero e la freddezza del sentimento, e genera un calore fittizio e morboso. E questa io combattevo non solo in nome del buon gusto, ma in nome della dignità umana, perché la ret­torica è quell’altro dire ed altro fare, quel pensa­re che non è sentire, quel sentire che non è fare, che è stato per lungo tempo il carattere e la ver­gogna della razza italiana. Io dicevo che la scuo­la dev’essere la vita; e quando venne il giorno della prova, e la patria ci chiamò, maestro e di­scepoli dicemmo: – Ma che? La nostra scuola è per avventura un’accademia? Siamo noi un’Ar­cadia? No; la scuola è la vita -. E maestro e disce­poli entrammo nella vita politica, che conduce­va all’esilio, alla prigione, al patibolo; e i miei di­scepoli affermarono questa grande verità che la scuola è la vita, chi con la morte, chi con la pri­gione, chi col confino, chi con l’esilio; ed io, io se­guii le sorti dei miei discepoli, gioioso di patire con loro! (Lunghi e fragorosi applausi) Così la vita politica fu concepita da noi come un dovere ed un sacrificio; ed io, entrando nel Parla­mento, mi portavo appresso il professore, e quel­lo che fui nella scuola, fui nella vita; e quando vi­di l’ambiente viziarsi, e il pubblico indifferente o motteggiatore, quello stato degli animi, che trasforma a poco a poco il vizio in costume e ge­nera dissoluzione morale, fui preso da quella in­dignazione, che talora è necessaria per rompere l’aria e far entrare la luce. Nella mia ingenuità pensavo che bastasse predicare per mutare il mondo e avevo molta fede in quelle pagine, le quali mi hanno procurato molte noie, ma che pur rimangono il mio titolo d’onore nella mia storia politica. (Benissimo!) L’opera de’ secoli non si cancella in un giorno; ed io vidi che il pri­mo programma politico dev’essere la nostra educazione, sola capace di creare quel buono e sano ambiente, dove possa fruttificare la since­rità, il patriottismo, il sentimento della solidarietà, il dovere dell’abnegazione, la gioia del sacrifizio. E questa Italia, che ride nel mio pensie­ro, non ve la può dare che l’educazione; e noi, o signori, pensiamo troppo all’istruzione, e non pensiamo abbastanza all’educazione. (Applausi) E che cosa è l’educazione? L’educazione è l’ingrandimento del nostro io, che fa suo, fa parte di sé quello che è fuori, e che è pure suo prodotto, la famiglia, il Comune, la patria, l’umanità; e l’uomo dalla solitudine del proprio io, che lo confonde con l’animale, s’innalza ai più alti idea­li, e talora diventa un eroe, quando, sacrificando il proprio io, sa soffrire e morire per quelli. (Vivi applausi)

È l’educazione che ingrandisce i nostri cuori con l’ingrandire de’ nostri intelletti, e trasforma le società e le fa simili a noi. Io mi ricordo. Un gior­no stavano intorno a me i giovani, e mi esprime­vano le loro fantasie, e chi voleva l’Italia fatta co­sì, e chi diceva no, dev’essere fatta così, e mi ram­mentavano quel re spagnuolo, che voleva fare la lezione a Domeneddio, e “se fossi stato io, avrei fatto il mondo così”. E io dicevo a questi giova­ni: - Studiate, educatevi, siate intelligenti e buo­ni. L’Italia sarà quello che sarete voi. (Scoppio di applausi)

Ora abbassiamo un po’ il tono e parliamo delle cose nostre come in famiglia. Io mi sento orgo­glioso di rappresentare un collegio, dove è un corpo elettorale così disciplinato e così patriotti­co. Mi piace anche che la città capo del collegio, sia stata chiamata l’Atene delle Puglie, perché tra Atene e i miei studi e la mia vita c’è pure qual­che simpatia. (Sorrisi e approvazioni) Io cercherò che Atene non resti un titulus sine re, un conte senza contea. (Ilarità) Alcuni, che mi negarono il voto, dissero che io ero divenuto un pezzo da museo, una statua da essere messa in un taber­nacolo; (Sorrisi) ma io sento quanto cuore anco­ra batte in questa statua. (Applausi) E sono con­tento, perché mi sento ancora buono a fare qual­che bene all’Italia e qualche bene al mio colle­gio, e anche alla provincia, alla quale il collegio appartiene. (Clamorosi applausi. Il pubblico si af­folla intorno all’oratore).

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